“Fa che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo”[1]
Questo articolo si propone di sviluppare, alcune riflessioni di fondo su un “disagio” insito nella condizione giovanile, che chiede di essere “qualcosa” soprattutto sul piano della corporeità le cui coordinate devono essere definite per individuarne il suo superamento, in forme non patologiche o nocive. Si tratta, come vedremo meglio del problema del binge eating disorder[2]il cui picco di insorgenza oggi, riguarda un ampio intervallo di età. Il sintomo più eclatante di queste crisi iperfagiche compulsive sul piano psicologico si associa a: bassa autostima; abbassamento dell’umore; immagine fortemente negativa del proprio corpo. Alla base di tale disagio vi è un “politeismo” dei valori e dei modelli sociali che oltre ad esprimersi attraverso difficoltà e conflitti individuali con gli ambienti di vita, giunge a una “diffusione” dell’identità mediante le categorie della frammentarietà e della relativizzazione dei significati, dell’eccedenza e della mancanza di opportunità. Peraltro numerosi studi al riguardo, ci avvertono della fallibilità del concreto agire educativo, poiché la complessità dell’uomo, dei contesti educativi e la molteplicità degli influssi sociali, oltrepassano le limitazioni di uso e di significato, che il soggetto manifesta per un corretto inquadramento diagnostico e per un approccio terapeutico mirato. Ogni esistenza ferita, richiede anche nella cura, di portare alla luce le emozioni del corpo vivente: gli sguardi, i volti, le lacrime, il sorriso, che dovremmo conoscere se vogliamo essere di aiuto agli altri, e se vogliamo rimanere sempre aperti all’ascolto. Il quadro appena tratteggio sulla consapevolezza dell’esistenza di questo problema mostra, che la sofferenza non è affatto omogenea. Ciò significa che il terapeuta, ricercando un rapporto interdisciplinare con la dimensione filosofica della “direzione di senso” dell’esperienza educativa e le varie scienze che illuminano secondo procedure sperimentali ed empiriche i vari ambiti della “schwermut” [3] qualifica ed estende un elaborazione concettuale ed emotiva capace di superare il carattere vago e ambiguo dei termini utilizzati nella descrizione di tali richieste d’aiuto. Affinare quindi, una filosofia posta come autoregolatore razionale della ricerca, che lavora a livello critico con criteri trasversalmente connessi, individuando allo stesso tempo gli obiettivi verso cui tali percorsi dovrebbero comunque convergere contrassegna con emblematica chiarezza le fondazioni etiche delle responsabilità correlate con l’agire clinico. Nell’attuale processo di mercificazione della vita umana, vi è ancora spazio per il nosce te ipsum?[4]In questa lastra su cui si susseguono le immagini deformate dei corpi, degli sguardi divorati dall’angoscia, che dilatano il dasein,[5] e dissolvono la percezione dell’identità, può un atteggiamento riflessivo, aiutarci a scoprire la lebenswelt,[6] increspata nell’anima, per leggere i linguaggi della sofferenza umana e spirituale? Esortato a munirsi di quanto di peggio il mercato offra a livello alimentare in questa guerra perpetua, bombardati, da una serie di messaggi commerciali e di condizionamenti massmediali, la persona affetta da questo disturbo di dipendenza da cibo si sente spinto a mangiare per poi sentirsi meglio, per poi sentirsi peggio e tornare quindi al cibo per risollevarsi. Dal punto di vista clinico, la percezione che la persona ha del proprio aspetto, ovvero il modo in cui nella sua mente si è formata l’idea del suo corpo delle sue forme, sembra influenzare la sua vita più della propria immagine reale. A conclusione di questa breve riflessione, su un disordine alimentare, così vistoso, nell’attuale società interculturale, può la possibilità della malattia connessa all’uomo, offrirci una molteplicità di “mappe” con cui approfondire la complessità del reale, interrelata agli studi delle neuroscienze, calarci per un certo periodo, in un ruolo nuovo, dove tener conto delle numerose variabili non quantificabili, ma solo osservabili sistematicamente nel loro evolversi? In questa costellazione di problemi che convergono verso una “diversità” in cui il significato del disagio, può essere negato nella sostanza, se pianifichiamo interamente l’esistenza umana in nome di un educazione permanente e totalizzante non rischiamo forse, la distopia sociale che il romanzo profetico, 1984 di George Orwell ha sinistramente delineato?
A voi i commenti.
Giulia Giordano
[1] La frase è attribuita a Ippocrate.
[2] Si traduce come disturbo da alimentazione incontrollata.
[3] La traduzione in Italiano di tale termine è malinconia
[4] La locuzione latina corrisponde all’esortazione “conosci te stesso”.
[5] Il termine tedesco è inteso come esistenza.
[6] Il termine, indica nell’ambito dell’esperienza individuale, la sfera auto-evidente dell’agire.
[7] Giorgio De Chirico, olio su tela, il dolce siciliano, 1919