“Dove sono gli uomini? riprese dopo un po’ il piccolo principe. “Si è un po’ soli nel deserto…”
“Si è soli anche fra gli uomini” disse il serpente.[2]
La vita dei non rinchiusi, costituisce ancora un forte stigma da cui deriva, quasi certamente un’esistenza hobbesiana: sgradevole, morbosa e bestiale. La cronaca di Ardea, ha assunto la forma atroce del delirio, spostandosi tra le vie di una fatiscente società, sovvertendo l’ordine e creando perturbamenti quasi insopportabili nel tessuto della vita quotidiana. È essenziale prendere atto fin da subito del dramma, attuato nell’uccisione dei due bambini e un anziano, mediante gli spari di un’arma da fuoco, denunciata smarrita, posseduta illecitamente e nella flagellazione di una creatura, Andrea, divisa fra sé stessa, la sua melancolia introspettiva e le sue reazioni emotive inappropriate, appesantite da un calvario nascosto di un quartiere sempre più simile a una discarica di cose e di persone. Ciò non di meno, mi sembra opportuno tornare brevemente sull’argomento, dalle implicazioni sociali enormi e sul piano del rispetto dovuto a ogni uomo; mi accingo ad accarezzare i pensieri, che si sono accavallati in modo tumultuoso sulle tracce degli accidenti e del disagio. Tali morti, credo abbiano tracciato un solco nella nostra coscienza collettiva perché in fondo, a bando di ogni diligente e prudente considerazione, rimane il fatto che il dolore, nonostante gli appelli, non è riuscito a trovare altra strada se non quella di un atroce delitto. Vi sembrerà strano, ma ho il rammarico per quella disperazione muta priva di una intrinseca speranza; soffocava, per la grande noia, andando alla ricerca di non so che cosa per colmare quel silenzio un po’ torpido, rotto da voci senza suoni, volti senza parole e tramonti del cuore, appena velati di pianto, che quando accettiamo fino in fondo i nostri errori, ci spogliano di ogni difesa? Ragionando tacitamente tra sé, intessuto dalla concatenazione degli eventi passati, scacciava forse invano la lotta interiore, alla ricerca di ciò che disperava di trovare: l’amore celato nelle “cose”. Gli esperti ci hanno fornito un’analisi del soggetto, che rimane sfuggente, in cui viene menzionato che fu sottoposto a “consulenza psichiatrica” per uno stato di agitazione psicomotoria, ma che non fosse in possesso di certificazione medica rilasciata da strutture sanitarie.
Esistono forme di alienazione così estreme e controverse indotte dalla sofferenza, che questa condizione impone a chi ne è affetto, una propria tragica weltanschauung[3], fondata sul nichilismo e sul rifiuto totale di ogni prospettiva storicistica, ma vi sono anche grandi picchi di uomini intelligenti a cui occorre un contesto capace di favorire gli adattamenti necessari, dove la follia rivela qualcosa di fondamentale su di noi e sulla nostra stessa identità di esseri umani. Su tale boulevard[4], molte personalità, hanno marcato la loro presenza nelle arti, nella letteratura, nel teatro, producendo grandi capolavori che ancora oggi ci affascinano. Non mi concentrerò sulla distinzione netta di questa dicotomia ambigua e interessante della follia, le cui incertezze profonde persistono nella psichiatria contemporanea, che continua a collocarsi in un terreno molto incerto. Infatti, tracciare un perimetro attorno alla materia rimane un’operazione dubbia e controversa. Ecco perché mi limiterò ad inquadrarla guardando oltre la dimensione della lettura offerta dai periodici, forse, in questo modo rinunciando e sospendendo il giudizio; per non correre il rischio di liquidare l’accaduto come sintomo di una cultura troppo lontana da noi nello spirito oltre che nel tempo, riusciremo a toccare il cuore del problema che porta con sé un’altra questione: il peso di ciò che manca. “Da una azione infatti possono derivare molte e varie conseguenze e non tutte con uguale intensità e probabilità […] Se si potesse, anche solo in linea teorica, prevedere tutte, dare quindi di una azione una determinazione completa, allora tutte le propensioni sarebbero analitiche rispetto all’azione stessa e si potrebbe definirle una specie-individuo”[5]. Mi spiego meglio: monopolizzare la malattia a danno di un’identità mostruosa, che si muove senza che ci sia una totale interdipendenza di sé con sé e di sé con l’altro conduce alla dolorosa incapacità di cogliere l’intera complessità insita nell’esistenza umana. Nel processo diagnostico, la standardizzazione delle etichette e delle categorie punta molto pragmaticamente a massimizzare il consenso tra psichiatri che si trovano di fronte a un dato paziente. L’indicibilità della sofferenza, a cui l’orizzonte contemporaneo ci sta abituando come “prodotto” che non è possibile narrare, se non in modo parziale e superficiale, non soltanto su un versante psicologico, ma anche antropologico, annulla il proprio grido, come invocazione all’intervento, per riannodare la trama dell’esistenza.
Armati di queste osservazioni, riavvicineremo le corde spezzate per ascoltare la melodia perduta? Saliremo sulla locomotiva della speranza, ed entreremo nel vagone delle ombre, che ci portiamo dentro, per rendere nitidi i colori della storia? È forse giunto a causa degli eventi, il sospirato momento di fondere le forze in una forza sola consentendo un rilancio del concetto di cura come regola di un mutuo soccorso? Certo è che tali intersezioni non leniranno il dolore dei familiari delle vittime e non riporteranno in vita coloro che abbiamo perso, ma forse ci aiuteranno a tenerci per mano negli studi per contribuire ad aprire nuove dimensioni in materia. Costernata, partecipo in preghiera, al lutto delle famiglie.
Seguono se vorrete, i commenti.
Giulia Giordano
[1] Bedlam: la parola tradotta dall’inglese significa “baraonda” dal nome del più famoso manicomio nei paesi anglosassoni
[1] Edward Hopper, American Locomotive, 1944
[2] “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry, 6 aprile 1943 New York
[3] il termine si riferisce alla concezione del mondo, e della vita
[4] la parola tradotta dal francese significa, ampia strada alberata
[5] Guido Traversa, “Metafisica degli accidenti” ed. Le esche, p. 56