“Ovunque andrò, ci sarà il sole, la luna, le stelle, i sogni, i presagi e la compagnia degli dei”
Epitteto, Diatribe III, 22, 22
Il periodo pitagorico mi ha sicuramente aiutato ad affrontare questo strano tempo che quasi annuncia un’oltre-contemporaneità. La mia mente serena e fermamente ancorata ai versi aurei pitagorici, era in trepida attesa di passare oltre il Covid. Il tempo è trascorso, ma la presenza scomoda del virus è rimasta. A questo punto urge rinforzare l’atteggiamento pitagorico con altri farmaci. Tra le varie possibilità preannunciate nel primo Tempo ritrovato, ritengo che sia arrivato il momento di aprire le porte ad Epitteto ed alla filosofia stoica. Riapro con emozione il manuale di Epitteto; penso a quante generazioni hanno trovato nell’enkheirídion, le istruzioni per l’uso per affrontare tempeste più o meno forti. Molti hanno trovato rifugio nella traduzione di Leopardi, altri, come chi scrive, nell’amorevole traduzione di P. Hadot.
Si ritiene che Epitteto (Ἐπίκτητος) provenisse dalla Frigia sita nell’Asia Minore. Il suo nome significa “acquistato” ed identifica la sua condizione di schiavo. Il suo padrone Epafrodito, era un liberto (ex schiavo) in carriera presso la corte di Nerone, del quale era segretario. L’avventurosa vita di Epafrodito deve aver inciso nel pensiero del nostro filosofo. Epafrodito nato schiavo, fu liberato dall’imperatore Claudio e da qui la composizione del suo nome: Tiberio Claudio Epafrodito. Divenne libellis di Nerone, ossia colui che si occupava delle petizioni rivolte all’imperatore nonché apparitor Caesarum, inserviente della casa Giulio-Claudia. Fu anche magistrato imperiale. Tacito ci racconta come fu Epafrodito a sventare la congiura che S. Gaio Calpurnio Pisone stava organizzando nei confronti di Nerone, e Svetonio ci narra come Epafrodito abbia accompagnato la fuga di Nerone nel 68 d.C. dandogli probabilmente una mano a suicidarsi. Fu esiliato da Domiziano che lo fece successivamente uccidere, con l’accusa di non aver impedito la morte di Nerone. Una vita che con i suoi ingredienti, non sfigurerebbe come trama di un film: schiavitù, potere, onori, fuga e morte per condanna.
Fortunatamente per noi, prima degli ultimi catastrofici eventi, Epafrodito liberò dalla schiavitù il trentenne Epitteto che poté stabilirsi in Epiro e precisamente nella città di Nicopoli. Immagino Epitteto con la sua andatura zoppicante, probabilmente segno di qualche contrasto con Epafrodito, assaporare la possibilità di essere libero (se pur in esilio) e contemporaneamente riflettere su come mantenersi saldo davanti alle prove, anche quelle più dure:
“Tra le cose che esistono, le une dipendono da noi, le altre non dipendono da noi. Dipendono da noi: giudizio di valore, impulso ad agire, desiderio, avversione, e in una parola, tutti quelli che sono propriamente fatti nostri. Non dipendono da noi il corpo, i nostri possedimenti, le opinioni che gli altri hanno di noi, le cariche pubbliche, e in una parola tutti quelli che non sono propriamente fatti nostri.”[1]
Rifletto: se avessi letto la frase da una di quelle riviste con qualche pretesa di intellettualità, le avrei trovate quasi banali, ma considerato il periodo in cui sono state dette, e la storia che le ha forgiate, le trovo un balsamo formidabile.
Qualcuno potrebbe obiettare che in fondo il corpo ci appartiene e che le nostre fortune sono il frutto del nostro lavoro e ingegno. Eppure mai come ora scopriamo che in un attimo tutto può essere sconvolto lasciandoci con i soli tesori che dipendono da noi: la capacità di leggere la realtà, i nostri desideri e le azioni che decidiamo di compiere.
A ben guardare, sembrerebbe poco, rispetto a ciò che non dipende da noi; in realtà è un vero e proprio programma di vita.
Ho sempre pensato che i desideri fossero le mete irraggiungibili del cuore. Il volgere lo sguardo là dove il quieto vivere è ospite indesiderato. Epitteto mi riporta alla stabile realtà, laddove va desiderato solo ciò che so che succederà. Decido di iniziare ogni giornata leggendo una frase dell’enkheirídion (oggetto che si tiene in mano) per restare salda e fedele agli eventi del presente. Attività quasi del tutto inesistente nella mia vita. Quasi ogni momento mi ritrovo a progettare il futuro, più raramente ricordo gli eventi trascorsi e quasi mai mi concentro su ciò che sto vivendo.
Dopo una colazione frugale, in stile con il nostro filosofo, mi pongo davanti a questa affermazione:
“Sopprimi quindi l’avversione che puoi provare per tutte le cose che non dipendono da noi e trasferiscila alle cose che, tra quelle che dipendono da noi, sono contrarie alla natura”[2]
Niente più scalata delle montagne con rotolata annessa. Mi concentro su ciò che so fare bene; cerco di migliorare quello che è alla mia portata; ed evito di dare il mio parere o compiere azioni del tutto fuori dalle mie capacità. Devo tacitare lo spiritello che continuamente mi invita a prendere parte a ciò che non mi compete, o peggio ancora a fornire pareri non richiesti e il più delle volte inutili.
Niente lamenti sulla sorte avversa, (tanto non dipende da me) e un certo distacco. Devo ammettere che a conti fatti questo atteggiamento funziona ed evita quel fastidiosissimo atteggiamento di Prefica piangente. Il Covid e le sue varianti diventano una presenza fastidiosa, l’atarassia è ancora latente e la paura è presente, ma cerco, da brava stoica, di non provare avversione e mettere una certa distanza tra me e il virus.
Nuova alba e nuova colazione durante la quale scrivo due parole su due distinti fogliettini che arrotolo e metto nella borsa:
La diairesi è il giudizio preliminare che mi permette di dire se qualcosa è a mia disposizione o meno. La “proairesi” è la facoltà raziocinante che mi permette di distinguere ciò che fa per me tra le esperienze sensibili che valuto attraverso il loro significato. Per esempio: se intendo essere felice devo usare correttamente la ragione (tramite proairesi) e giudicare tramite diairesi ciò che serve, e che è contemporaneamente in mio potere. Questo non significa che devo accontentarmi, ma che posso essere felice concentrandomi sulle mie capacità, godendo di ciò che riesco ad esprimere nel presente, senza lasciarmi condizionare da chimere future irraggiungibili. Sono contenta che il vecchio programma pitagorico si possa facilmente adattare alla nuova situazione, introducendo una realistica visione delle proprie capacità e un nuovo strategico ingrediente: il distacco. Concordo pienamente con Epitteto che la felicità non può essere banalmente tradotta come il possesso di beni materiali. Mi piacerebbe vederlo interloquire con i moderni anchorman televisivi, chissà se riuscirebbe a mantenere il suo proverbiale distacco davanti alla pochezza di molti discorsi. Sarebbe un bel confronto considerato che per ascoltarlo persino l’imperatore Adriano lasciò Roma per recarsi a Nicopoli e Marco Aurelio ne trattò la dottrina diffusamente nei suoi Ricordi.
Terza colazione, questa volta un po’ più ricca come premio dei recenti progressi, e nuova frase:
“Non sono le cose, ma i nostri giudizi, cioè noi stessi, a essere responsabili dei nostri turbamenti”[3]
Ci siamo! Quante volte mi rabbuio perché attribuisco valori o giudizi a ciò che non dipende da me. Certo il distacco non è facile e mi chiedo quanto lavoro hanno fatto su loro stessi gli stoici per arrivare a concepire la morte come nulla di temibile. Mi capita spesso di provare tutta la gamma delle emozioni, talvolta in modo impetuoso. Ritengo che talvolta sia piacevole trovarsi nella burrasca, ma non sono gradevoli gli strascichi. Posso provare a guardare gli accadimenti e le emozioni da esse generate con un distacco stoico, ma ritengo di non essere pronta.
Secondo gli stoici il mondo è retto da un ordine necessario e razionale. Questo ordine è da considerarsi come il fato o come la provvidenza. Tutto ciò che avviene è determinato da ciò che è avvenuto precedentemente, ed è la causa di ciò che succederà. Si tratta di una catena di eventi che non è possibile spezzare, perché se essa cessasse, cesserebbe l’ordine razionale del mondo. Ogni avvenimento che succede entra in questa interminabile catena, tanto vale guardare l’accaduto da fuori, distaccandosi dagli effetti se indipendenti da noi. Del resto la virtù principale dell’uomo è vivere in conformità con la ragione unica e armonica che regola ogni cosa. Per essere felici occorre assolvere al proprio dovere. I veri beni per l’uomo sono la saggezza, la sapienza e la giustizia. La ricchezza, la bellezza e la salute sono indifferenti. Possono essere considerati dei valori degni di scelta in quanto preferiamo la bellezza alla bruttezza, la salute alla malattia. Pur comprendendone la visione stoica, per me la bellezza come armonia, (proporzione delle parti), riempie l’esistenza. Impossibile farne senza, la vita perderebbe il sapore. I miei amici pitagorici sono stati i primi a studiare i rapporti matematici che regolano i suoni musicali, le proporzioni su cui si basano gli intervalli, stabilendo la connessione tra “Intelligibile e Bello”.
Suona la sveglia è tardissimo! Salto la colazione ma non rinuncio ad Epitteto:
“Non cercare di fare in modo che ciò che accada accada come desideri, ma desidera che ciò che accada accada come accade, e il corso della tua vita sarà lieto”[4]
Chi mi conosce me lo ripete in continuo: “Non puoi cambiare il mondo!”. Oggi si aggiunge anche Epitteto alla nutrita schiera. Accettare i propri limiti e le cose così come sono, evita il donchisciottesco affanno di rendere tutto ad immagine del proprio giudizio. Sorge in me una certa resistenza: “se siamo arrivati a questa conoscenza non è certo perché siamo rimasti seduti”.
La visione stoica vedeva Dio come l’anima e l’ordine del mondo, un soffio caldo che anima ogni cosa. Ragione, Fato e Dio sono una cosa sola. Ciò che non dipende da noi è immutabile. Pur non sposando questa visione, Epitteto mi mette in guardia da voler ridurre la realtà alla mia piccola visione, a lasciarmi interrogare dagli eventi senza la pretesa di addomesticarli. Acquisire la consapevolezza di non poter modificare ciò che non dipende da me, senza per questo cadere in un senso di impotenza.
Forse la frase che mi scuote di più è “Per tutto il tempo in cui questi beni ti sono dati, prenditene cura come se non ti appartenessero”. Ormai ho una certa familiarità con Epitteto e anche con i figli volati dal nido. Certo i miei figli sono parte di me, ma non sono i miei. Questo è un bene perché possono liberamente disporre della propria esistenza (per ciò che dipende da loro). La sorpresa più grande sono le differenze tra le nostre esistenze; ha quasi più valore ciò ci separa rispetto a ciò che ci unisce, perché ci permette la scoperta di nuovi mondi possibili.
Volendo riassumere in poche parole lo stile di vita stoico:
- Coltiviamo la consapevolezza del presente concentrandoci su ciò che possiamo gestire e senza preoccuparci di ciò che non dipende da noi;
- Facciamo tutti parte di qualcosa di più grande e per questo preoccupiamoci degli altri, a partire da coloro che ci sono più vicini sino a coloro che sono più distanti;
- Non demonizziamo le difficoltà, ci aiutano a crescere e quando non sono evitabili facciamone tesoro;
- Le emozioni possono essere controllate e veicolate dalla ragione. Un corretto distacco dalle passioni ci consente di vivere più pienamente l’esistenza.
Da ultimo decido di introdurre in questo programma piuttosto impegnativo, le riflessioni che a fine giornata Epitteto si poneva: cosa ho fatto di bene? Cosa ho sbagliato? Cosa non ho fatto di ciò che dovevo fare?
Finalmente posso apporre il cartello “lavori in corso” sul mio piccolo progetto di buona vita secondo natura.
Daniela Argentati
[1] Manuale di Epitteto, a cura di PIERRE HADOT, Einaudi, 1,1
[2] Manuale di Epitteto, a cura di PIERRE HADOT, Einaudi, 2,2
[3] Ibidem, 5
[4] Manuale di Epitteto, a cura di PIERRE HADOT, Einaudi, 8
Complimenti scrivi davvero molto bene , le riflessioni sono profonde e si intuisce che vengono da un’esperienza di vita non da uno sforzo intellettuale . A marzo 2020 ad inizio pandemia un giorno mentre ero in casa mi è passata davanti, sulla cornice digitale regalo dei miei nipoti, una bellissima foto fatta durante una gita in montagna: il lago di Como visto dall’alto circondato dalle montagne con le cime ancora innevate e sovrastata da uno splendido cielo azzurro e ho pensato: guarda in quel momento davo tutto per scontato e dovuto la possibilità di camminare liberamente di ammirare questa bellezze…..e ora quella che io consideravo la normalità è totalmente stravolta e cambiata devo fare i conti con una realtà nuova dura e difficile (qui a marzo 2020 la situazione era davvero pesante) ,e scopro quanto poco le cose dipendano dalla mia volontà….e allora? Come non cadere nello sconforto? Rendendosi conto innanzitutto che momenti come quello in cui ho ammirato quel panorama sono stati un dono totalmente gratuito non una cosa dovuta . E che comunque il desiderio del bello che è in me non viene meno quando la realtà è avversa, anzi questi momenti ti costringono ad andare a fondo a chiederti su cosa veramente poggia la tua vita . Per non soccombere al nichilismo o peggio alla disperazione Epiteto suggerisce di lasciar accadere le cose come accadono e non come le vorresti veder accadere tu, verissimo,io da cristiana aggiungo con la certezza della compagnia di un Dio buono .”Chi dava a voi tante giocondita’ è per tutto e non toglie mai una gioia ai suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande ” Manzoni mette in bocca a Lucia queste parole alla fine dell’ottavo capitolo dei Promessi Sposi mentre lei ammira un panorama simile a quello della mia foto
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Pur essendo molto diversi, il cristianesimo, e in particolare i Padri della Chiesa, hanno attinto molto dalla filosofia stoica. Mi fa piacere il collegamento che hai effettuato. La sfruttatissima frase di Dostoevsky “La bellezza salverà il mondo” rende merito alla delicatezza con cui hai descritto la nostalgia di un panorama che dentro di te ha portato molto frutto e che non scompare con l’impossibilità di goderne in questo periodo.
Nel ringraziarti, ti lascio queste due frasi che le tue parole mi hanno fatto ricordare: la prima di E. Kant “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me”. La seconda di A.Schopenhauer:
“Ad eccezione dell’uomo, nessun essere si meraviglia della propria esistenza; anzi, per tutti gli altri esseri l’esistenza è una cosa talmente ovvia, che essi non la notano. [. . ] Da questa coscienza di sé e da questa meraviglia nasce allora quel bisogno di una metafisica che è proprio dell’uomo soltanto: questi è quindi un animal metaphysicum”
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Daniela
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