In questi giorni ho avuto modo di assaporare e riflettere sulla malinconia. Un filtro sottile e grigio tra esistenza e realtà. Un senso di incompiutezza che come un velo avvolge le cose.
All’inizio la si può confondere con la tristezza, poi si comprende che è un sentimento diverso. Si potrebbe definirla come la consapevolezza della finitezza dell’essere e di ciò che lo circonda. Una presa di coscienza della fragilità umana. Talvolta genera insoddisfazione perché tutto sembra irrimediabilmente vano, incapace di dare risposte all’inquietudine dell’anima.
Romano Guardini in Ritratto della malinconia scrive: “Si cerca e ci si sforza di prendere le cose così come si vorrebbe che fossero; di trovare in esse quel peso, quella serietà, quell’ardore e quella forza compiuta delle quali si ha sete: e non è possibile. Le cose sono finite. … Noi sentiamo una insoddisfazione particolarmente violenta per ciò che è finito … Proprio l’uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell’esistenza…Per conto mio, io credo che da di là da qualsivoglia considerazione medica e pedagogica,il suo significato sta in questo che è un indizio dell’esistenza dell’assoluto”[1].
R. Guardini intravede in questo sentimento dolce e struggente la tensione al senso religioso che alberga l’uomo. Anche chi nega Dio avverte una domanda di senso che non si accontenta dell’evidenza, ma ha l’esigenza di confrontarsi con l’ipotesi dell’Assoluto.
La nostra natura dialettica pone costantemente questa domanda di senso. La domanda, per il solo fatto di essere formulata, presuppone che la risposta, da qualche parte, esista; se ciò non fosse, la domanda non sarebbe pensabile.
Ciascuno di noi ha una domanda di giustizia, se la giustizia non esistesse non proveremmo tale istanza; ma la giustizia di questo mondo non è mai definitiva e soddisfacente, a chi la invoca resta sempre una sensazione di incompiuto.
Talvolta la malinconia è come una valigia che apriamo per vivere di nuovo tempi antichi, persone care, momenti preziosi che non vogliamo perdere.
Se sappiamo convivere con lei non è affatto una condizione negativa, una nemica della nostra felicità. Non si tratta di un elemento estraneo. Essa è un tutt’uno con la nostra condizione ontologica, per cui volerla escludere significherebbe abdicare all’esistenza stessa. Si può essere malinconici e contemporaneamente amare la vita e aspirare alla felicità. Malinconia e felicità non sono contrapposte, possono essere complementari. Chi affronta superficialmente l’esistenza va meno soggetto alla malinconia rispetto a colui che ha un temperamento profondo, perché è quest’ultimo ad avvertire i limiti dell’esistenza e a sentire la mancanza di perfezione.
In una società edonistica, volta a riempire ogni minuto della vita con attività, divertimento, spensieratezza, non c’è posto per un sentimento volto al pensiero visualizzato in tutte le sue sfaccettature sino all’inquietudine. Inquietudine che si muove tra il senso dell’esistenza, la consapevolezza della morte e l’inesorabile scorrere del tempo. Se non vi fosse l’inquietudine, il filosofo non esisterebbe.
Una cultura che rifugge l’inquietudine per seguire la facile ricerca del consenso, che non si confronta con il male, non solo evita la conoscenza, ma annulla anche i sentieri dell’etica.
Schiacciati dal pensiero unico che ci vuole tutti sorridenti, perfetti, sempre connessi ai social capita, come in questo periodo, di dovere fare i conti con la precarietà dell’esistenza, la sofferenza, l’indifferenza etc. Posti davanti all’autoinganno del benessere che ci invita ad agire piuttosto che al pensare, proviamo un senso di smarrimento e precarietà.
La malinconia non è solo bellezza, se non controllata può cadere nelle tenebre. Può scatenare noia, angoscia sino alla depressione. In essa convivono gli opposti: vita e morte, luce e ombra. Occorre avere la capacità di accogliere il reale se pur con il senso di nostalgia che ci causa la malinconia; occorre avere la consapevolezza che questo senso di inquietudine ci consente di penetrare la nostra identità portando alla luce la bellezza dell’esistenza che talvolta può essere offuscata dal mal di vivere, ma che vale sempre la pena di scoprire.
Abbiamo tutti gli strumenti per convivere con la malinconia, accettandola come un’amica un po’ inquieta, che ci aiuta a scrutare le nostre profondità per aprirci all’esistenza e non per chiuderci in noi stessi. Volgersi all’altro ci consente di condividere la nostra preziosa valigia che altrimenti non avrebbe possibilità di sopravviverci, restando soffocata in un tempo e spazio limitato.
Ecco perché sarebbe interessante una comunità dove condividere le nostre malinconie con ironia e distacco, sollevando veli per rivelare tutta la bellezza e la provocazione del vivere.
Daniela Argentati
[1] ROMANO GUARDINI, Ritratto della malinconia, Brescia, Morcelliana, 1990