Tra le pagine di cronaca dei quotidiani, ritrovo ancora un ennesimo caso di suicidio. La tragedia dell’uomo, che si è ucciso in strada su una panchina, con un colpo di pistola, desta in me amarezza, inducendomi a riflette non solo sul senso della sofferenza, ma anche sulla condizione miserevole dell’umanità, la cui area mefitica sembra aver pervaso ogni nostra cellula. L’inesorabile problematica del baratro della non esistenza, segnale di disagio intenso che conduce alla rassegnazione, e nei casi più estremi ad una morte volontaria, richiede di essere trattata con una penna, che scivolando su un umanità semidistrutta di cadaveri caduti nel turbamento dell’inquetudine, metta in luce l’enorme delicatezza della fragilità umana, i gemiti silenziosi del dolore che colmano il corpo di lacrime, rendendo difficile e talora impossibile ogni contatto con la vita. Vari sono gli aspetti del fenomeno suicidario riportati dall’OMS, deputato al monitoraggio dei casi che avanzano inesorabilmente estendendo i loro tentacoli in tutte le Nazioni.
Il mondo delle persone coinvolte in gesti così estremi, diventa friabile, i volti si confondono sulla scena intessuta di problemi fra loro connessi come la perdita del posto di lavoro, difficoltà finanziarie, povertà, profondo isolamento sociale, riflettendo la fulgida angoscia di una disperazione senza fine che diviene il perno attorno a cui ruota la spirale discendente che costringe i singoli o le famiglie ad una crudele “logica della necessità” dove l’anima si increspa tra le ombre del tempo e, non riuscendo a trovare un modo per comunicare, si dissolve negli immensi corridoi dell’abisso dove la morte oggetto indistinto, non conoscibile in modo certo e determinato, diviene l’unica risoluzione possibile.
L’epidemia suicidaria che ha accompagnato l’isolamento sociale a cui ci ha costretto il COVID-19 e che stiamo vivendo nella fase di ripresa, può essere frugata dalle scienze umane, evidenziando la natura moribonda del pianeta che investe e rovescia l’umanità? In un mondo brulicante di forze nuove, sempre più veloce e sofisticato, accompagnato da un parziale vuoto politico di prestigio, quo vadis homo, senza l’habitus consueto di essere nel cambiamento, l’acqua che sgorga dalla sorgente terreno di Dio? A sostegno di quanto affermato su un argomento dalle enormi implicazioni sociali, potrebbe l’arte gioiosa dell’educare, stimolare le persone all’amore per la vita, al senso di responsabilità, alla consapevolezza, per fronteggiare queste emozioni travolgenti e distruttrici lungo binari che conservano ancora un intrinseca speranza? Nasciamo senza chiederlo e nell’arco della vita, dobbiamo sopportare innumerevoli eventi, gioie e dolori che permettono allo spirito in un processo lento, travagliato ma ineluttabile, di cambiare per vedere ciò che c’è da vedere, per fare ciò che è da fare. Divenendo l’educazione cosa del cuore, é auspicabile che alcune di quelle buone virtù di un tempo, ormai inspiegabilmente cadute in disuso, ritornino ad essere una meta da raggiungere?
Con questi interrogativi assai pesanti, che costellano la mia mente, concludo lasciano a voi i commenti.
Giulia Giordano
- dipinto: “Il suicida”, di Édouard Manet, 1877-1881