Una decina di giorni fa è uscita l’ultima canzone di Niccolò Fabi, “Io sono l’altro”.[2]
Capita che nelle canzoni si possano trovare riflessioni o denunce di fenomeni sociali estremamente stimolanti; ne è questo il caso. L’ascolto del brano, che ho apprezzato molto per la sua musicalità e per la profondità del testo, mi ha spinto a prendervi spunto per affrontare un tema assolutamente all’ordine del giorno, “l’altro”.
Chi è l’altro?
Fabi lo racconta molto accuratamente nel suo pezzo, con una serie di esempi concreti che ci costringono ad una assunzione di responsabilità nei confronti di questo “altro da noi”, diverso ma così “prossimo”. Del resto, se ci pensate, siamo tutti “altri di altri”…
Infatti, l’altro è sempre altro rispetto a…: altro rispetto a noi, al nostro modo di vedere le cose, alle nostre abitudini; non è altro per sé, in senso assoluto, ma sempre altro in riferimento ad un elemento principale a cui afferisce. Ecco allora che questo altro viene sempre visto e valutato a partire da un punto di vista dato, definito e soggettivo. Non ha una sua identità in sé, non vale di per sé stesso, non ha un valore precipuo, ma ciò che è, viene valutato e rapportato sempre rispetto al suo punto di riferimento, in positivo, oppure in negativo.
Intendiamoci, non che “l’altro” non sia a sua volta un Io identitario con una sua essenza ed esistenza specifica: qui si sta ponendo l’accento su come colgo, accolgo e valuto un io diverso da me che entra in relazione con me, l’altro appunto, che difficilmente mi è dato cogliere nella sua identità assoluta, ma sempre in modo relativo, rispetto a quella particolare situazione o ambito di vita che condividiamo.
Il titolo del pezzo di Niccolò Fabi è per l’appunto “IO sono l’altro”: la forza del suo brano sta nella personificazione di un alterità generica con cui ciascuno di noi è abituato a relazionarsi. Ed è questa la sua forza, la capacità di dare identità, con i suoi esempi, ai tanti altri che ai nostri occhi sono sfuocati e poco definiti, mettendoli al centro della relazione con noi: “io sono l’altro, quello che hanno assunto quando ti hanno licenziato … sono quello che ti anticipa al parcheggio e ti ritarda la partenza,… quello che ti sembra più sereno perché è nato fortunato o solo perché ha vent’anni in meno …”[3] Questa prospettiva spiazza: bastano pochi esempi per far emergere quanto questo altro ci appartenga, sia affar nostro, nel bene e nel male…
Come basta poco per fare un passaggio ulteriore: questo altro, che io vedo sempre in riferimento a me, che valore ha di per se stesso? Chi è questo altro che io non so disgiungere dalle mie paure, dalle mie invidie, dai miei problemi? Che non so vedere se non in relazione a me, alla mia vita, (come se lui, una vita non ce l’avesse), affar mio, da cui prendere le distanze o accorciarle “al bisogno”? Come canta magistralmente Fabi, “quelli che vedi sono solo i miei vestiti, adesso facci un giro e poi, mi dici”, sarebbe oltremodo “terapeutico”, ogni tanto, indossare i panni degli altri; provare a fermarsi e pensare, immaginare la vita, l’identità di quelle esistenze con le quali incrocio il mio cammino.
Provare a essere noi, gli altri, può apparire una proposta quanto mai bizzarra e che, assolutamente, non va fraintesa con un invito a scappare da sé, anzi: si può rivelare un’esperienza di crescita assolutamente arricchente, capace di destrutturare quell’auto-centrismo in cui siamo immersi, per riconoscere il nostro limite ed, al contempo, apprezzare il potenziale che l’altro mi permette di raggiungere ad ogni livello. Non solo può risultare un’esperienza arricchente per sé stessi, ma anche per le comunità nelle quali viviamo: la pratica della “Job Rotation”, ad esempio, nella gestione delle risorse umane in ambito aziendale, ovvero la possibilità per alcuni ruoli di ruotare nei diversi reparti al fine di acquisire una maggiore conoscenza dell’identità aziendale e poter confrontare il proprio ruolo con quello degli altri, aumenta la consapevolezza del proprio ruolo e la capacità di riconoscere abilità, potenzialità e limiti propri ed altrui in una prospettiva di crescita personale ed aziendale assieme. Pensate a quanto questa pratica gioverebbe, se attuata, nelle comunità civili nelle quali operiamo, al di là del lavoro!
Va da sé che questo fare esperienza dell’altro, non in funzione a noi, ma di per sé stesso, ci costringe a muoverci, spostarci, cambiare prospettiva, indossando quei panni che tanto, troppo spesso, valutiamo superficialmente, per vedere su se stessi che effetto fanno.
Certo, tutto questo implica una fatica considerevole, quella fatica di uscire dai propri comodi schemi mentali e costringerci a spostare il nostro baricentro: il premio? Scoprire in modo sorprendente gli innumerevoli mondi possibili attorno a noi, aprirci ad altri modi di vivere, di pensare e di agire e, magari, trovare in essi ispirazione…
Daniela Corvi
[1] Renè Magritte, Golconda 1953
[2] Ultimo singolo di Niccolò Fabi
[3] Cit. testo “Io sono l’altro” Noccolò Fabi